(di Anna Venturini) Passeggiando per i vicoli del mercato di Ballarò a Palermo, non passano inosservati sui banchi asiatici e sudamericani, i grandi tuberi scuri che vi diranno, di banco in banco, chiamarsi, “yam”, “gnami”, “igname” o “aloo”, a seconda che il venditore sia di lingua anglofona, ispanica o indiana.
Si tratta di radici della Dioscorea, una pianta rampicante perenne che cresce nei climi tropicali, diffusa nel Sud-Est asiatico, nelle isole del Pacifico, in Africa e in Sudamerica. Le varietà di Dioscorea sono circa seicento e la sua radice commestibile raggiunge anche grandi dimensioni.
L’igname rappresenta da sempre l’alimento principale in ampie regioni del pianeta e spesso costituisce la fonte primaria di nutrimento di molte popolazioni.
Gli igname sono ricchi di amido, carboidrati, minerali e vitamine, oltre ad una sostanza tossica, la dioscorina, che viene eliminata durante la cottura. Chi li vende dà per scontato che l’acquirente li conosca e lo sappia, ma per noi sono alimenti inusuali e quindi dobbiamo prestare attenzione alle spiegazioni preziose che ci vengono fornite.
Un filippino mi ha raccontato che quando il cibo è scarso vengono utilizzate anche alcune varietà tossiche dell’igname, ma si procede alla raccolta e alla lavorazione delle radici una settimana circa prima di consumarle: si attende che i livelli delle tossine velenose diminuiscano e poi si fanno assaggiare ad una sventurata gallina. Dopodiché si sbucciano, si bollono e si pestano fino ad ottenere una pasta che viene poi utilizzata in varie preparazioni, dai dolci alle gelatine.
Come ogni pianta commestibile e medicinale, la Dioscorea – così chiamata in onore del medico greco Pedianus Dioscoride che scrisse nel primo secolo D.C. “De materia medica”, un prezioso trattato di medicina e botanica, considerato la prima farmacopea del mondo antico – ha proprietà curative ma è anche velenosa.
Quanto al nome, pare che derivi da un fatto assai semplice: alcuni schiavi africani in Spagna stavano mangiando i tuberi e quando venne loro chiesto che cosa fossero risposero semplicemente che stavano mangiando, usando la parola della Guinea “nyami”, col significato di mangiare. In spagnolo la parola rimase “ñame”, mentre in portoghese divenne “inhame”, come in francese e in italiano. La parola anglofona “yam” invece, è passata ad indicare tutte le radici che i nativi utilizzavano per alimentarsi e ancora oggi, in Nordamerica, yam indica anche la patata dolce (Ipomea batatas) da non confondere con la Dioscorea.
Molte varietà di igname non contengono tossine ma, per evitare spiacevoli sorprese, è sempre meglio bollire la radice prima di utilizzarla. Se volete realizzare, per esempio, una semplice e saporita zuppa soffriggete una bella cipolla, due carote e un paio di gambi di sedano tagliati a mano grossolanamente, uno spicchio d’aglio rosso pelato e schiacciato e qualche pezzetto di fungo porcino secco. Dopo qualche minuto aggiungete una dadolata di pomodori freschi o, fuori stagione, della conserva di pomodoro a tocchetti e un cucchiaio di concentrato. A parte avrete sbucciato e fatto bollire cinque minuti qualche radice di igname già tagliata a cubetti. Aggiungete l’igname scolato alle verdure, coprite di acqua e cuocete a fuoco lento per circa un’ora. Buona cena!