Per contare gli agricoltori che a Scicli ancora producono il “cosaruciaro”, bastano le dita di due mani.
Sono otto, e molti di questi ottantenni, gli agricoltori eroici e attaccati alle tradizioni che nelle campagne del centro tardo barocco segnalato nella lista del Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco nel Sud-Est della Sicilia si impegnano a conservare il fagiolo che già dal nome fa capire il perchè di tanta dedizione.
Il fagiolo “cosaruciaro” è dolce (cosa ruci) e ha la buccia sottile di colore bianco panna con piccole screziature marroni intorno all’ilo, il punto di attacco del legume al baccello. Oggi lo sparuto gruppo di agricoltori “custodi” lo coltiva in piccoli orti ritagliati tra le serre delle primizie di ortaggi che coprono gran parte del territorio agricolo di Scicli e che rappresentano la maggiore fonte della sua ricchezza economica.
La coltivazione del “cosaruciaru” risale all’inizio del ‘900 e a quel tempo aveva un certo peso nell’economia agricola locale. Alla coltura erano riservate le cannavate, ovvero i terreni alluvionali, freschi e permeabili che si trovano lungo il torrente Modica-Scicli. I coltivatori del fagiolo cosaruciaro – detti ciumarari, da ciume (cioè fiume, in siciliano) – nel periodo del raccolto lo portavano in città sui carrettini e lo vendevano ai negozianti locali e non c’era bottega alimentare del paese che fosse sprovvista dei grandi sacchi di iuta in cui i fagioli secchi venivano confezionati.
L’avvento delle colture intensive delle primizie sotto serra ha fatto dimenticare e abbandonare questa produzione tipica del territorio sciclitano. Solo alcuni contadini, per non perdere la possibilità di mangiarlo in una buona zuppa di verdure o con le cotiche, hanno continuato a coltivarlo nei propri orti.
La riscoperta del fagiolo cosaruciaro è relativamente recente. Il recupero è opera di pochi agricoltori riuniti in un Presidio Slow Food che si sono impegnati a rispettare un disciplinare di produzione che mira a garantirne la conservazione e la coltivazione sostenibile. I semi sono conservati e riprodotti dagli stessi contadini del Presidio in piccoli fazzoletti di terra (poche centinaia di metri quadrati) ricavati, a volte, in mezzo alle serre.
Il progetto di recupero e valorizzazione di questa antica coltura operato da Slow Food ha visto la collaborazione della locale Sezione Operativa della Regione Siciliana e il sostegno dell’Assessorato Regionale delle Risorse Agricole e Alimentari. Lo scopo ultimo è la riaffermazione di una tradizione locale che sembrava scomparsa facendo in modo che diventi un’opportunità per gli agricoltori sensibili alla qualità delle produzioni e alla conservazione della biodiversità.